Nel 1995 Zhang Dali percorreva le strade di Pechino e spruzzava con le bombolette spray la tag del proprio volto stilizzato sui muri in demolizione degli hutongs, i vicoli della città vecchia. Talvolta era lo stesso artista che seguendo le linee del suo grande profilo disegnato sul muro, creava varchi nella parete, squarci che sbriciolavano e drammatizzavano la distanza tra vecchio e nuovo. Tag simili erano apparse in precedenza sui muri di Bologna dove Zhang Dali, in fuga dalla Cina, ha vissuto tra il 1989 e il 1995: “una città che mi ha stimolato artisticamente e mi ha accettato”.
“La street art in Cina è passata da una prima fase dominata dalla domanda se fosse vera arte o spazzatura importata dall’Occidente a quella attuale in cui è diventata una moda e talvolta sono le autorità che organizzano i giovani artisti per dipingere intere strade. Rimane una differenza con l’Occidente: qui il dibattito è sugli edifici e sulle pareti su cui è lecito ‘graffiare’, in Cina, invece, la censura è attenta ai contenuti che vengono dipinti”.
Zhang Dali è a Bologna all’inaugurazione della sua antologica “Meta-morphosis” che ripercorre trenta anni di carriera, distribuiti in nove sezioni in cui sono raggruppate 220 tra sculture, dipinti, fotografie e installazioni.
Per Dali “importante è l’atto, il momento creativo della street art nella consapevolezza che tutto sarà distrutto, è solo una questione di tempo perché non c’è eternità nelle opere umane, eterno è il momento in cui le fai”. E questo momento è documentato dalle foto, nelle quali lui stesso ha ripreso le sue opere di street art, che fanno parte della sezione “Dialogue and Demolition”, dove sui muri in demolizione alla tag del profilo stilizzato si aggiungono le tag AK-47 e 18K, che rimandano al mitra kalasnikov e all’oro a 18 carati e simbolizzano, rispettivamente, la ferocia della violenza urbana e quella del potere economico.
L’artista ha anche dipinto in acrilico su tela volti di donne e uomini segnati da una trama elegante e drammatica al tempo stesso perché costruita con la iterazione della scritta AK-47 e, successivamente, ritratti che rientrano nella serie “Slogan”, dove il mapping pittorico si realizza con le parole che il governo usa negli slogan disseminati nelle vie delle città cinesi.
Il rapporto tra realtà e rappresentazione è affrontato con originalità e una buona resa espressiva nella sezione “A second history”, dove l’artista confronta le foto di cerimonie ufficiali o di eventi pubblici pubblicate dalla stampa tra il 1950 e il 1980 con gli originali che, attraverso un intenso e paziente lavoro di ricerca, ha rintracciato negli archivi.
Persone scompaiono, espressioni mutano, sfondi si dilatano o si restringono: la fotografica ufficiale risponde a una logica che è figlia dell’ideologia e non della rappresentazione fedele della realtà grazie a un minuzioso e capillare lavoro di photoshop predigitale.
La premessa alla installazione “Chinese Offspring” è nelle parole di Zhang Dali quando ricorda gli anni della scuola “dove l’immagine che avevo della Cina era quella di un paese meraviglioso che negli anni si è confrontato con grandi problemi e che ho raccontato per trent’anni cercando di coglierne l’essenza, constatando che, come avviene nei cambiamenti epocali, molti sono vittime sacrificali e pochi ne traggono giovamento”.
L’emblema di questo dramma è nel boom edilizio che ha interessato tutta la Cina e che è reso possibile dalla migrazione nei centri urbani di milioni di contadini che si trasformano in muratori e che vivono in condizioni disperate, segregati nei cantieri, privi di diritti.
Questo sacrificio epocale è ben rappresentato nell’ultima sala, denominata “Chinese Offshore”, popolata da una serie di sculture in resina che derivano dai calchi di corpi umani appesi a testa in giù. Sono i corpi dei contadini migrati in città in un momento di urbanizzazione “in cui si è persa traccia di ogni ideale”.
Ogni scultura è siglata dal titolo, dalla data, da un numero progressivo e dalla firma dell’artista: una modalità che drammatizza questa marchiatura che è, a un tempo, sia autenticazione dell’autorialità dell’opera d’arte sia denuncia della condizione di questi migranti, ridotti a corpi identificati da un numero, come è avvenuto nei momenti più tragici della storia dell’umanità.
D’altra parte Zhang Dali ama ripetere: “tutte le mie opere hanno una stretta relazione con la realtà che mi circonda”.
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